Il luogo delle domande aperte

Approfondire le ragioni culturali dell’essere imprenditore impegnato con tutta la vita. Un ambito di pensiero. Per scompaginare e ordinare le carte di una passione sempre da alimentare. Il Gruppo Michelin raccontato da Paolo Camillini, vice presidente del Club Libera Impresa.

Di Enzo Manes

“Ho lavorato in fabbrica per 50 anni e sono molto contento di averlo fatto, perché le difficoltà che tutti noi incontriamo sono il mezzo più grande che abbiamo per essere educati. Spesso è possibile ottenere più profitto da un fallimento che da un successo, perché quando si ottengono dei risultati positivi si rischia di «specchiarsi» senza analizzare nulla, mentre davanti a uno scacco siamo obbligati a essere attenti alla realtà e a imparare da essa”. Così ebbe a dire l’imprenditore francese François Michelin in un’intervista non convenzionale rilasciata al quotidiano Avvenire quando aveva 81 anni, da presidente onorario del Gruppo leader nella produzione di pneumatici, dopo cinquant’anni di vita nell’azienda che aveva fondato.  Si è deciso di collocare questo breve ma intenso pensiero di Michelin in apertura di conversazione con il vice presidente del Club Libera Impresa, Paolo Camillini, perché contribuisce a far comprendere il motivo per cui intitolargli un gruppo di lavoro che intende approfondire le ragioni culturali dell’essere imprenditore e del fare impresa. Nell’impegno della quotidianità che prova a non mettere in disparte nulla che attiene al desiderio fattivo di costruirsi e costruire.     
     

Con un gruppo di amici del Club Libera Impresa avete avvertito l’esigenza di animare un laboratorio culturale, coerente con lo spirito dell’Associazione, chiamandolo Gruppo Michelin. Quali le ragioni che hanno permesso di dare una forma compiuta alla vostra esigenza?

Quasi sempre l’imprenditore è un uomo d’azione. Uno che decide, che prende e va. Tuttavia, riteniamo fondamentale coltivare un pensiero che sostenga e assecondi l’azione. Cioè, un giudizio su quel che si fa. Per cercare di capire quel che è all’origine dell’azione. Ecco perché il gruppo Michelin lo avverto e lo intendo come una sorta di centro culturale del Club Libera Impresa. Un ambito di lavoro per aiutarsi e farci aiutare a far vivere e aver cura di un giudizio sistematico sull’esperienza. Sorretto da alcuni pilastri di riflessione che pensiamo opportuno tenere in gran conto. Ad esempio: perché sono capitato a fare questo mestiere? Perché mi muovo in un certo modo? Perché, pur nell’evidenza delle mille difficoltà e dei dubbi di cui sono pieno, permane la voglia, cioè il non poter fare a meno di attivarmi per dare concretezza a una certa cosa, propria a quella cosa da realizzare? Una voglia a mettermi in gioco dentro le complessità che non posso liquidare semplicemente con il “bisogno di fare”. La “voglia” merita di essere accudita da un pensiero, da un pilastro che la regge. Perché poi, c’è la “non voglia” con cui fare i conti. Potrebbe prevalere, averla vinta. Ma a quel punto non si cambia più. Si subisce la realtà, si azzerano le domande, si sfarina il pilastro. E nell’oscillare tra “voglia e non voglia” passa tutto un mondo. E la questione riguarda non solo te, ma te imprenditore in rapporto con chi lavora per la tua azienda. Quale deve essere la relazione con il lavoratore? Mi deve dare retta solo perché è un mio stipendiato? Lo dico con franchezza: questa non dialettica è da anni in crisi profonda anche se non è certo superata. Oggi la realtà è assai tumultuosa e le nostre imprese sono chiamate a provare a essere protagoniste di una novità interessante per tutti. Ciò significa che un imprenditore necessita del fatto che i suoi collaboratori esprimano curiosità, inventiva, competenza. Se non si cura la relazione, per quale motivo il lavoratore dovrebbe mettere tutta la propria creatività nell’azienda? E nella relazione cresce anche l’imprenditore. La nebbia, per così dire, si fa meno fitta. Perché il pilastro tiene. Il Gruppo Michelin prova a interrogarsi, a ragionare, a cercare di comprendere. Noi sentiamo vive queste domande. Anche perché la tentazione di pensare di saperla lunga è sempre lì. E le domande, per come ci escono, mettono a fuoco e smontano fragili e improduttive certezze. Quando nel 2019 mi è stato proposto di assumere la vice presidenza del Club Libera Impresa, ho subito pensato a un ambito nel quale un drappello di imprenditori potesse ragionare e dialogare su alcune domande di fondo. Un contesto di riflessione su di noi e quello che è il nostro mestiere.           

Perché avete deciso di intitolare questa realtà culturale a François Michelin? Che cosa vi ha colpito della sua umanità e della sua vocazione di imprenditore?

Quando ho proposto l’iniziativa mi è stato risposto che occorreva darle un nome. A quel punto, dovendo pensare a una personalità attraente fra gli imprenditori, mi è venuto facile tirare fuori il nome di François Michelin. Mi aveva colpito la sua figura di imprenditore dopo aver letto il suo libro E perché no. Un giorno gli ho scritto e lui mi ha risposto ( Lettera Michelin ). Poi, un’estate, è stato invitato al Meeting per l’Amicizia fra i Popoli a Rimini e in quella circostanza abbiamo avuto l’opportunità di incontrarlo per un aperitivo. Di lui mi colpiva il fatto che fosse un uomo unito. Per Michelin tutto aveva a che fare con tutto. La casa, gli affetti, il lavoro, la politica. La vita, insomma. Una passione che lo investiva e riguardava qualsiasi aspetto. E si capiva che tale passione si alimentava della fede. E questo gli permetteva di esprimere un giudizio più chiaro sulle cose. Lui teneva aperte le porte sulla realtà. E questo lo aiutava a essere libero, più sé stesso in quello che la vita lo chiamava a fare. Un uomo unito su tutte le questioni. Illuminato dalla sua esperienza di fede. Ci è sembrato assai pertinente intitolargli il tentativo che stavamo abbozzando. 
   

Come si caratterizza l’attività del gruppo e quale tipo di contributo fornisce al Club Libera Impresa?

Tenuto conto dei nostri impegni quotidiani, in un anno riusciamo a costruire 2 – 3 momenti di lavoro. Di norma vi partecipano tra le 15 e le 20 persone. Succede però, in alcuni casi specifici, di allargare la proposta a tutta l’Associazione. Diciamo che il nostro laboratorio culturale raduna idee e prova a svilupparle. E se e quando matura qualcosa che pensiamo possa meritare un incontro di scenario, ci impegniamo a strutturarlo per renderlo occasione di dialogo per tutta l’Associazione. L’impegno, non facile da assolvere, è quello di non interrompere il filo che tiene insieme il lavoro dell’anno. Diciamo che i periodi di ferie sono per me i giorni per provare a dare ordine e provare a sistematizzare i contenuti emersi. L’obiettivo non può che essere quello di far rifluire ciò che il nostro centro culturale produce a tutta l’Associazione. Ci stiamo lavorando e credo che anche questo sito possa fungere da veicolo nella misura in cui riesca a essere un’occasione di dialogo autentico. Di approfondimento rispetto a tematiche che siano espressione di temi vivi e vitali.  

Negli anni, quali gli incontri più significativi?

Ne cito un paio. Il primo la visita e il dialogo con i monaci benedettini del monastero La Cascinazza che si trova a pochi chilometri da Milano. Ci interessava ascoltare voci fuori dal coro su temi come la proprietà privata e il profitto. Voci comunque di imprenditori perché quei monaci hanno un’attività nella produzione di birra e miele. Si è trattato di un incontro schietto e di grande provocazione. Ad esempio ci ha colpiti la loro visione imprenditoriale per rispondere a problemi concreti. Ci hanno detto che, siccome in convento  erano arrivati parecchi giovani motivati a impegnare la propria vita in quella vocazione, il priore aveva comunicato agli altri monaci che per farli crescere con giudizio niente era più efficace del lavoro. E perciò occorreva aumentare la produzione di birra e miele. Non era facile, però, crescere nella produzione di miele con il sopraggiungere del fenomeno della morìa di api.  Allora – ed ecco qui la visione – la decisione di piantare alberi e alberi: dunque risultati, per forza di cose, non raggiungibili sul breve periodo, ma una mossa imprenditoriale di grande respiro. Per noi è stato un dialogo molto costruttivo perché ci ha permesso di vedere le cose con occhi diversi dai nostri. Lo stesso è avvenuto grazie a un incontro con un neomedico – nel senso che fino ad allora non aveva deciso di non fare quel mestiere per seguire altro – impegnato in turni di guarda nel periodo della pandemia. Aveva iniziato a riutilizzare la propria laurea dentro una vicenda impensabile.   

In questa fase storica così tanto complessa – la vicenda della pandemia ha inciso nella vita di tutti – su cosa state lavorando? Quali sono le domande che traducono in questa fase di non facile lettura la vostra preoccupazione propositiva?

La nostra attenzione si è concentrata su alcune questioni dirimenti che abbiamo espresso in domande. La prima: da dove sorge il valore economico che permette ad un’azienda di avere un presente e una prospettiva virtuosa? Se andiamo all’origine dell’azione di un imprenditore vi è una generazione di valore economico quale elemento caratterizzante. Poi, però, vi sono tanti altri aspetti di cui tener conto e che vanno compresi nell’orizzonte della generazione di valore economico pur essendo un qualcosa di diverso, ma altrettanto generativo di una responsabilità. Come il mettere in moto le risorse in un certo modo per offrire opportunità di lavoro. Questo è alla base dello sviluppo. Quando penso agli immigrati, alla disoccupazione, mi viene da dire che noi imprenditori siamo investiti di una responsabilità grandiosa. Noi siamo come le api operaie, siamo come nel corpo lo stomaco, che sappiamo quanto serva alla vita. Un organismo creativo che realizza frutti dai doni di Dio, che rende operative le materie prime. Un qualcosa di molto concreto che può diventare un bene per tutti perché dà dignità all’uomo chiamandolo al lavoro. Si tratta di una scintilla nel quotidiano che ti richiama all’origine, al significato sempre sorprendente di quello che fai. Che ti fa capire da dove provenga il valore economico che fa stare in piedi la tua azienda. Seconda questione. Gli uomini mettono in moto cose incredibili, penso al circus della Formula 1. Un mondo di tecnologie, di scoperte, di passioni, di audacia, di giro di soldi. Ma per che cosa? Per una cosa della quale tutti noi potremmo fare a meno. Poi apriamo il giornale e troviamo i bambini morti sulle spiagge e su questo non riusciamo a fare nulla. Ma perché? Intendiamoci, io non ho nulla contro la Formula 1, i motori mi piacciono, sono un ingegnere meccanico. Tuttavia – e lo dico senza venature moralistiche – come è possibile che ci si spenda in cose grandiose solo su certi aspetti della vita trascurandone altri altrettanto decisivi? Un imprenditore deve essere capace di mettere in moto le persone provocando le loro passioni. Le passioni sono fondamentali. Ecco allora che la nostra passione imprenditoriale è chiamata a tenere dentro tutto. Al punto di dire: voglio realizzare la “Formula 1” dei bambini che possano avere il cibo di cui nutrirsi. E così stare bene. Un di più dentro il tutto. Terza questione: la successione nelle aziende. Io ritengo un passo in avanti che molti dei nostri figli scelgano di non fare il nostro mestiere. Questo ci deve interrogare:  cosa è la mia azienda? Come faccio a passarla ad altri? Come questo valore può diventare un bene per tutti? A ben vedere, si tratta, per noi imprenditori, di un passaggio che tocca tutto il nostro essere. Un’occasione straordinaria, irripetibile. Dunque, in questa contingenza storica, siamo impegnati a lavorare su tre argomenti fondamentali: dove sorga il valore; come questo valore possa rappresentare un fattore inclusivo che riguarda tutti in quanto espressione di un orizzonte di pensiero e operativo più ampio; come trasmettere questo valore, nel passaggio alle nuove generazioni, della guida responsabile dell’azienda.       

Fosse ancora in vita l’illuminato imprenditore François Michelin, in questo momento che cosa gli domanderebbe?

Gli chiederei di poter trascorrere una giornata con lui. Per fare esperienza del suo essere in azione. Passeggiare con lui nei reparti della sua azienda. Imparare per osmosi. Non esiste la scuola per l’imprenditore, come non esiste la scuola per l’artista. E quante domande avrei voglia di fargli.  



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