Come un patto fiduciario origina una storia di successo. La Faac nel racconto di Andrea Moschetti, presidente e amministratore delegato del Gruppo. Il nostro primo incontro in presenza dopo quasi due anni di stop causa pandemia. La felice riscoperta di un metodo che ci piace
Succede in Italia. Ed è un bel succedere. Perché quella di Faac è una storia singolare, istruttiva, da conoscere, su cui riflettere, miniera di spunti. Un segnale confortante di imprenditoria italiana che funziona. Confermata e arricchita dalla conversazione con un uomo che ha accettato – beninteso non un uomo solo al comando – il compito di lanciarla in mare aperto facendone un’eccellenza nel mercato internazionale. Il primo incontro in presenza degli amici del Club libera impresa, dopo oltre un anno e mezzo di interruzione per le note vicende, è vissuto del dialogo con Andrea Moschetti, presidente e amministratore delegato di una realtà leader nel comparto dei sistemi di automazione per cancelli e barriere; e che negli anni ha conquistato posizioni di rilievo in altri territori, assai complicati, come quello dei sistemi per la gestione dei parcheggi, pensiamo solo agli aeroporti. L’incontro si è svolto a Montebello della Battaglia, in una suggestiva casa di ospitalità legata al carisma di don Orione. Siamo in provincia di Pavia, quando già i cartelli lungo la strada rimandano alle aziende del vino che scandiscono l’intrapresa principe dell’Oltrepò pavese.
Correva l’anno 1965…
Moschetti si è raccontato e ha raccontato. Delle circostanze non proprio convenzionali che l’hanno portato ad intraprendere questa avventura lui che aveva ben avviata una brillante attività di avvocato avendo scelto di non seguire le orme del padre imprenditore del ramo dell’automotive; del rapporto con una proprietà perlomeno particolare e alquanto ingombrante seppur, alla prova dei fatti, solo sulla carta; dei primi passaggi del nuovo corso dell’impresa e di come si è lavorato per farne un modello di attività innovativo continuamente da innervare. Di una crescita realizzata attraverso una politica di acquisizioni dovuta a quella pratica oculata e lungimirante di investire la gran parti degli utili in azienda e di un programma di welfare aziendale (termometro concreto di chi crede e punta ad investire sulla persona) e di sviluppo attento al tema della sostenibilità, non proprio secondo i cliché che trovano ampia accoglienza sui media. Parliamo di un gruppo che fattura 650 milioni di euro, erano 210 nel 2012 quando ha messo piede nella sede storica del bolognese per salire sulla tolda; allora gli occupati erano un migliaio oggi superano i tremila e settecento. Il Gruppo è una rete composta di 53 società, 3 in Italia e le altre sparse in 29 Paesi.
La storia di Faac acronimo che sta per Fabbrica automatismi Apertura Cancelli è quella di un’impresa nata nel 1965, a Bologna. Per intuizione di un certo Giuseppe Manini. Moschetti riporta una storia che gli hanno raccontato per spiegare come un capomastro di un’impresa edile sia diventato un imprenditore. Dice: “Durante un viaggio negli Stati Uniti il signor Manini viene attratto dal sistema di ribaltamento azionato da un camion per scaricare la merce: un pistone oleodinamico. Ne coglie l’incisività. Pensa ad un cancello azionato con la tecnologia oleodinamica che apra e chiuda il cancello dei cantieri edili garantendo così comfort e sicurezza perché, in genere, chi lo apre difficilmente si preoccupa di chiuderlo. Torna in Italia, si mette in azione. Così entra nel mondo dell’automazione. Siamo nel 1965 e un prodotto di quel tipo non esisteva”. L’intuizione di Manini viene a soddisfare un’esigenza concreta. La risposta a un bisogno partorita dalla creatività funzionale di un capomastro di Bologna. “Il prodotto esce in assenza di competitor. Si tratta di un prodotto assai costoso. Per fare un esempio, costa pressappoco come una Fiat 500: mezzo milione di lire”. Quel che si dice un prodotto di nicchia destinato a pochi ricchi. Da Bologna dove c’è la produzione si muovono squadre della Faac per installare questo sistema. L’azienda conosce subito il successo. Al punto tale che il cliente non domanda un sistema per automatizzare il proprio cancello “ma dice montami un Faac”. Dunque abbiamo il marchio che è sinonimo di un prodotto. L’azienda si sviluppa, si espande a livello europeo, vengono aperte le prime filiali. Nel 1985 un primo passaggio chiave. Dice Moschetti: “Faac incomincia ad avere unità produttive in giro per il mondo. La crescita prosegue.
Dal padre al figlio e alla Chiesa
Nel 1991 il fondatore muore e la conduzione passa al figlio, Michelangelo Manini, che non ha mai fatto l’imprenditore ma frequenta il pianeta della finanza e così amministra i soldi dell’impresa, affida il percorso di crescita di Faac a un team di manager. Nel 2012 muore ad appena 50 anni. Moschetti riceve una telefonata dalla curia che lo informa che l’arcivescovo Carlo Caffarra vuole incontrarlo. L’alto prelato, che lo stima in quanto consulente dell’economo dell’arcidiocesi, gli comunica che Michelangelo Manini ha lasciato in eredità alla curia la società che in esclusiva a Bologna si occupa dell’installazione dei sistemi di automazione della Faac. “Invece l’imprenditore lascia alla curia tutta l’azienda Faac, una multinazionale che vale 1.700 milioni. La notizia l’arcivescovo Caffarra me la comunica il giovedì, il lunedì successivo mi offre l’incarico di guidare l’azienda”. Moschetti accetta. Basta una stretta di mano. La famosa fiducia, quella che incolla due mani che si cercano e si trovano. “L’ho fatto con un pizzico di incoscienza. Sono stato catapultato in un lavoro completamente diverso: gestire una multinazionale è cosa diversa rispetto a svolgere l’attività di avvocato, seppur l’avvocato di impresa. Ho provato per alcuni mesi a conciliare le due mansioni, ma non lo erano per mille motivi, anche per incompatibilità in quanto oltre a essere Presidente sono anche amministratore delegato di Faac”. In azienda entra in punta di piedi, “ho cercato di osservare. Pur avendo dal primo giorno le deleghe operative prima di esercitarle ho cercato di imparare. In principio mi sono concentrato su quelle che erano le mie competenze, quindi sulla parte legale. Poi ho esteso la mia attività, anche per una mia sensibilità personale, alle risorse umane. Insomma, ho cercato di studiare. Anche di capire quel che avveniva da altre parti. Ad esempio, il welfare in FAAC non esisteva, era un'azienda padronale di quelle dure e pure. Allora mi sono detto: vado alla Corte di Cassazione del Welfare in Italia, ad Agordo, alla sede di Luxottica. Luxottica è famosa per il welfare. Ho conosciuto e studiato quel modello per provare ad introdurlo e magari migliorarlo in Faac”. Il metodo della conoscenza in azione – non appartiene solo alla prima fase del suo impegno –, continua a coltivarlo con soddisfazione e i benefici si vedono. Il suo entrare in punta di piedi è divenuto un movimento a mettersi in gioco di continuo, ad assumersi responsabilità nella relazione, ad operare scelte.
Il trust, governance di successo
Un approccio interessante. Ma mentre lui si muove in punta di piedi altri provano ad entrare a gamba tesa. Perché la notizia del lascito testamentario alla Chiesa cattolica dell’azienda di Zola Pedrosa attraverso la curia di Bologna desta scalpore. Anche perché l’imprenditore mai ha dimostrato particolare affezione alla Chiesa. Parenti veri e presunti ne contestano l’autenticità. Avanzano dubbi e richieste. Alla fine un accordo mette fine alle contese legali: Faac destina 60 milioni ai familiari del defunto. Questo nel 2014. L’anno successivo viene liquidato il socio di minoranza. A quel punto l’azienda è al 100 per cento della Chiesa cattolica. Sono undici anni che Andrea Moschetti vive l’esperienza di guidare la Faac. In undici anni molta acqua è passata sotto i ponti. Prima di tutto, Faac non è più da tempo solo un’impresa che presidia il mercato dei sistemi di automazione e di cui è leader mondiale. Dispone di tre divisioni: oltre a quella che richiama fedelmente l’origine e cioè l’Access Automation, vi sono la Access control che si occupa di barriere automatiche e tornelli pedonali e la divisione parking (parcheggi con esazione e meccanismi per le zone Ztl). “Crediamo molto nell’innovazione. Ogni anno circa il 5 % del nostro fatturato viene investito in ricerca e sviluppo. E abbiamo un patrimonio di proprietà intellettuale molto forte. Abbiamo più di 70 brevetti proprietari”.
Riavvolgendo il nastro della narrazione, a 52 anni Moschetti assume la guida della Faac. Il patto fiduciario ben raffigurato dalla stretta di mano ricordata da Moschetti trova la sua ricaduta concreta nella formula del trust, che permette di separare la proprietà sostanziale dalla gestione. “Si era anche studiata la possibilità di promuovere una fondazione, ma si riconosce che quello strumento, per sua caratteristica, è inidoneo per un’attività tipicamente industriale”, chiarisce. Per trent’anni la curia di Bologna affida la gestione del gruppo al trustee composto da tre persone; Moschetti, l’avvocato Bruno Gattai e Giuseppe Berti, manager con all’attivo esperienze in grandi aziende. I tre hanno il potere di gestire e far crescere la realtà in piena autonomia rispetto alla proprietà. “Siamo un multiproprietario ciascuno con il 33% e abbiamo la nuda proprietà per i prossimi trent’anni e tutti i diritti di voto”. La chiesa di Bologna può intervenire per gravi divergenze attraverso la figura dell’arcivescovo, il cardinale Matteo Zuppi. Circostanza finora mai accaduta, come ammette Moschetti, ma è nelle sue prerogative la possibilità “di schiacciare il pulsante rosso”, sostiene con un leggero sorriso. Al di sotto del trust, e cioè un istituto di diritto inglese sottoposto alle corti del diritto inglese, vi è una società holding e quindi una società operativa.
Un cda che decide
Durante l’incontro si fa cenno ad uno dei temi caldi che attraversano il mondo delle piccole e medie imprese italiane; il dato che per la gran parte sono ancora saldamente a conduzione familiare anche nella rappresentazione plastica dei consigli di amministrazione. Moschetti sceglie di entrare nel merito raccontando lo specifico del Gruppo e del fatto che non esiste un imprenditore classico a guidare la cabina di regia. Tanto è vero che “abbiamo ritenuto un fattore chiave quello di formare un consiglio di amministrazione che decide, cioè che discute ed entra nel merito per definire le scelte operative. Infatti non è composto in quanto soggetti amici nel senso letterale del termine. Ma sono stati scelti professionisti anche esterni all’azienda, che lavorano con incarichi strategici da altre parti. Ritengo che tale scelta abbia contribuito ad allargare gli orizzonti, a raccogliere punti di vista molto interessanti, a fornire suggerimenti che poi, nel contesto della riflessione collettiva, hanno determinato decisioni che si sono rivelate ottime alla prova del mercato”.
La lettera dei desideri
È chiaro che Faac, pur essendo un’azienda come tutte le altre, ha alla radice un elemento molto forte che la differenzia. E ciò spiega perché il suo modo di realizzare business sia diverso. Vi è infatti una “lettera dei desideri”, una sorta di linee guida consegnata al trustee dall’arcivescovo Caffarra. “Non vincolanti ma secondo noi lo sono. Ad esempio il fatto che Faac sia l’azienda dell’Arcidiocesi, della Chiesa cattolica non deve essere il pretesto per accogliere i raccomandati della Diocesi. In dieci anni posso assicurare di essere l’unico ad essere entrato in azienda per volere della Diocesi. In Faac si entra per selezione, si fa carriera per merito. Altro punto decisivo. La vocazione caritatevole del socio non deve in alcun modo impattare sulla gestione dell’azienda nel senso che non dobbiamo essere una benefit company. L’azienda deve fare l’azienda, l’azienda deve creare valore e quindi attenzione all’ultima riga del conto economico. Il cardinale ci ha raccomandato: ‘Magari cercate di fare azienda in maniera più etica. Quindi cercate la sostenibilità dell’azienda nel lungo termine’. E noi siamo sostenibili in quanto siamo autosostenibili, nel senso che creiamo valore per la crescita, ma dobbiamo fare fuoco con la nostra legna. Questo è un principio che abbiamo abbastanza piantato in testa e cerchiamo di ricordarcelo ogni giorno”.
Moschetti pigia un altro tasto di una tastiera impegnativa quanto importante da suonare. Dice: “Chi entra in Faac se si dimostra bravo non può non fare carriera. Le risorse umane per noi sono il principale asset del Gruppo. Investiamo molto nella formazione”. E sempre a proposito del suo essere impresa diciamo sui generis pur essendola a tutti gli effetti come è dimostrato ampiamente da visione, missione, strategia e numeri, vi è il fatto che la proprietà “una parte significativa dell’utile generato in azienda lo conferisce a chi è meno fortunato di noi. Questo è un elemento aggregante che non ha colore, connotazione politica, religiosa o di appartenenza; e negli anni, è certamente servito a creare un amalgama che ha tenuto insieme il gruppo anche nei momenti meno positivi”. Dunque, una parte degli utili viene indirizzata a sostenere progetti di solidarietà e non solo in Italia e di cui una volta l’anno il cardinale Zuppi in visita alla sede centrale e in collegamento con le altre realtà del Gruppo dà conto fin nel dettaglio; dall’altro gli utili vengono utilizzati per finanziare le 18 acquisizioni concluse negli ultimi anni. Il Gruppo è solido, non ha debito finanziario, afferma Moschetti con legittima soddisfazione.
Il codice etico strumento di lavoro
Un percorso virtuoso supportato da un codice etico vissuto non come un male necessario – come non di rado accade – piuttosto come vero strumento di lavoro. “Cerchiamo di trasmettere a tutti gli stakeholder del gruppo e cioè dipendenti, clienti, fornitori quelli che sono i valori fondanti del nostro agire. Il che non significa essere un’azienda agganciata ai buoni sentimenti ma semplicemente vuol dire mettere in atto un approccio etico nel nostro operare: rispettare l’ambiente, i diritti umani, le parità di genere. Le società del Gruppo sono molto declinate al femminile: dal consiglio di amministrazione alla squadra manageriale fino alla produzione. Siccome l’attenzione verso i dipendenti è uno dei desideri del nostro socio di riferimento, siamo una realtà che attua una contrattazione decentrata; nel senso che, oltre al contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici, abbiamo un contratto integrativo aziendale incentrato su alcuni dei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile previsti dall’agenda Onu. Il sostegno alle famiglie dei nostri collaboratori è per noi centrale. E, perché no, anche conveniente. Una persona felice e serena lavora meglio e dunque produce di più. Offriamo molti bonus: da quello per i bebè al pagamento dell’asilo, alle borse di studio ai campi estivi per i figli dei dipendenti. Inoltre, stiamo ristrutturando i nostri impianti produttivi per renderli sempre più gradevoli”.
Come uscire dai radar dei compratori
Il presente è ben definito dallo sguardo operativo verso il futuro. Il gruppo, come ascoltato, gode di buona salute: risultati economici e reputazionali. Ma per recitare un ruolo da protagonisti in serie A è fondamentale continuare a crescere “e dobbiamo farlo per mettere la Faac in sicurezza dalla corte di eventuali compratori; dobbiamo operare per uscire dai radar dei grandi acquisitori. Fino a quando sapremo resistere? L’ultima decisione davanti a un’offerta irrinunciabile secondo logiche consolidate spetta al Papa – che conosce la nostra storia, la stima e apprezza molto che una parte dei dividendi vada a sostegno di opere e iniziative di solidarietà; anzi lui, così mi ha detto, attribuisce il nostro successo proprio al fatto che siamo un’impresa che fa beneficenza alla Chiesa. Noi avvertiamo con sempre maggiore consapevolezza il compito di crescere e cioè produrre cassa per distribuire dividendi e autofinanziarci”. Il che, come si è imparato dal dialogo con Moschetti, non è automatico. Pur essendo l’azienda leader nella produzione di sistemi per l’automazione.