• di Enzo Manes

Quel che favorisce lo sviluppo

In un’impresa è storicamente complicato il passaggio a una gestione manageriale. Alfredo Lovati ha raccontato di questo ed altro nell’incontro promosso dal Club Libera Impresa. Un’occasione per vivere un’esperienza di cultura aziendale. Quella di Beta 80

In questa storia c’è un gruppetto di amici ingegneri che ha fatto insieme l’Università al Politecnico di Milano e che coltiva un desiderio, quello di provare a mettere in piedi una start up per lavorare insieme; c’è una bottiglia di barbera e un’etichetta che cattura l’attenzione di qualche occhio di quel gruppetto intraprendente; ci sono i passaggi più significativi che hanno portato quella start up ad essere una realtà imprenditoriale dove oggi lavorano 550 persone; e c’è un certo modo d’intendere il fare impresa. Nel caso di questa storia nell’Information and Communications Technology. Il racconto è di Alfredo Lovati, uno di quegli amici ingegneri, socio/imprenditore/manager di Beta 80 Spa azienda impegnata nella produzione di software e servizi. Più socio, più imprenditore, più manager? Arduo avanzare una risposta netta. Parrebbe prevalere l’elemento della sintesi senza che l’una abbia a prevalere sulle altre. Che è poi è il ritratto dell’azienda. Una contaminazione dove l’aspetto nominalistico c’è, “la figura professionale” e ben presente, ma non al punto tale da definirla in senso stretto, da rinchiuderla nel classico perimetro limitandola, non valorizzando la libertà responsabile.  


Nati da un desiderio

È stato dunque Lovati l’ospite dell’ultimo incontro proposto dal Club Libera Impresa. Dove, ancora una volta, si è fatta esperienza dell’occasione che funziona da innesco o detonatore. Capace di accendere un movimento visibile di sequenze di pensieri, grazie alla partecipata ragionevolezza di un vocabolario di vita “activa”. Per dirla con Roland Barthes, le parole rimandano alle cose e, naturalmente, ad altre parole. Ecco la modalità dell’incontro che è movimento, in quanto muove, muove qualcosa. Pensieri e parole che si posano, diventano frutti. E ciascuno del raccolto ne mangia per quel che gradisce, per quel che trova conveniente alla propria vicenda. 

Lovati ha raccontato. Si è innescato così: «Noi non siamo nati su un’idea di business ma dal desiderio di lavorare assieme, cioè dal fatto che eravamo 10 amici che si erano conosciuti in Università. Un bel giorno - circa un anno e mezzo prima di finire l'Università - ci troviamo a studiare assieme in un posto davanti a una bottiglia di vino che era marchiata dal papà di uno di noi “Beta 80” (anche perché era di Barbera!) e diciamo «come sarebbe bello continuare a lavorare assieme, però bisogna che ci facciamo venire qualche idea perché sennò …». Erano tutti ingegneri elettronici e sapevano che le offerte di lavoro non sarebbero mancate immediatamente dopo la laurea. Eppure, avevano un desiderio che non volevano spegnere senza averci provato. Qualche idea dovevano farsela venire, si sono detti. Per intanto e non era male come punto di partenza cominciarono a individuare “il nome della cosa”: Beta 80. Avevano sul tavolo, in bella vista, una barbera dell’80 e quindi eccolo lì, a portata di bicchiere, il primo tassellino. «A quel punto – ha proseguito Lovati – dovevamo capire cosa poter fare e per capirlo ci siamo rivolti alle relazioni che avevamo disponibili. Gli amici più grandi che avevano terminato ingegneria, i professori dei nostri corsi e gli amici dei nostri professori. Gli indizi ci hanno aperto gli occhi sulle possibilità che offriva il mondo dell’informatica allora già in grande fermento. Noi sapevamo poco di informatica, i nostri studi dicevano altro. Ma capimmo che bisognava andare in quella direzione. Così partimmo. Avevamo zero quattrini, ma per cominciare a fare non occorrevano particolari investimenti. Aprimmo un’associazione di professionisti e finché non ci laureammo ci cimentammo con qualche lavoretto per allenarci sul tema informatico che, per l’appunto, non ci era familiare. Nel 1986 abbiamo fondato Beta 80 srl. Tanto entusiasmo, voglia di fare, ma nessuna competenza tecnica. Eravamo tutti coetanei, questo per dire che fra di noi non c’era alcun maestro». 


Imparare da tutto e da tutti

Tuttavia, le competenze tecniche erano quelle più semplici da acquisire, assai più complicate quelle commerciali, quelle gestionali. In che modo fare? Mettendo in pratica il metodo della relazione. Ha spiegato: «Un ingegnere di dieci anni più grande di noi, ci passò del lavoro e ci insegnò come si fa a formulare un’offerta. Un aiuto determinante, con l’imprinting della relazione. Per la nostra azienda, per me, il punto di ricchezza è proprio quello: imparare da tutto e da tutti, cioè l'idea è che tu hai sempre bisogno di imparare e che questo avviene attraverso un uso, oserei dire, strutturato delle relazioni. Porto un esempio. Io adesso svolgo anche un’attività commerciale e quindi mi succede di incontrare persone, e tra i miei potenziali clienti, ci sono soggetti di un certo livello. Io mi preparo per quegli incontri, metto a fuoco ciò che mi piacerebbe chiedere loro, non solo con l’obiettivo della vendita.  È un metodo che funziona. Ti porti a casa sempre qualcosa. Ho una serie di rapporti stabili con amministratori delegati – persone del mio ambito ma anche al di fuori – con cui intrattengo relazioni non finalizzate puramente al business, che poi, a ben vedere, sono relazioni di business perché ti aiutano a costruire una strategia, a capire in che direzione andare, a posizionarti. Insomma, la relazione ti fornisce una serie di elementi che si rivelano fondamentali».


Quattro business units

Beta 80 significa un’impresa che si è sviluppata non per acquisizioni. Ma in modo organico. A forte connotazione manageriale. Dove oggi lavorano 550 persone e con un fatturato di circa 57 milioni di euro. Clientela medio – alta. Diversi i settori d’intervento, le telecomunicazioni quello più frequentato. «Però lavoriamo bene anche nel mondo dei servizi, della Grande Distribuzione Organizzata, delle utilities, dell'industria e anche nella pubblica amministrazione locale». L’azienda opera attraverso quattro business units: due basate su piattaforme di prodotto che, in qualche modo, svolgono la loro attività verso il mercato attraverso un prodotto proprietario di Beta 80 (la prima: software per la logistica e in particolare per i magazzini; la seconda: si concentra sulla Public Safety e perciò realizza la parte tecnologica delle centrali operative pubbliche che si occupano di sicurezza) e invece due che si configurano più come Business Units di System Integration, nella sostanza si tratta per lo più di servizi correlati a tecnologie e applicazioni di altri produttori. Per agevolare la performance delle grandi imprese contribuendo a sviluppare i fondamentali processi di digitalizzazione. Ha detto un cliente a Lovati: «”Grazie a queste piattaforme noi riusciamo a ripensare, a ridisegnare i nostri processi così che possiamo fare le cose meglio delle nostre cattive abitudini”. Questo è il tema e tocca la questione centrale del cambiamento.  Il che significa mettere in discussione e provare a superare gli schemi mentali che ciascuno di noi ha in testa. Un metodo che aiuta nei processi di sviluppo».


Andare oltre l’azienda tradizionale

Beta 80 fece un buon esordio. E così cresceva, si sviluppava nei primi anni attraendo in modo particolare amici che i soci avevano conosciuto in università. Persone più giovani che però in buona parte avevano il mito della multinazionale, specie nell’effervescente settore dell’Information technology. Chi ha deciso di rimanere attratto dalla proposta della realtà del milanese ha per così dire fatto una scommessa di lavoro. Intanto in azienda, tra i soci, si faceva un po’ più nitida la fotografia di una situazione che già manifestava limiti al processo di sviluppo in atto. Andava ripensata l’organizzazione nel suo complesso arrivando a mettere in discussione meccanismi consolidati, come quello di riservare per sé stessi i posti chiave. Avevano verificato come questo aspetto stava impedendo la crescita dei soggetti migliori che erano entrati in Beta 80. Occorreva un cambio di passo. Una svolta culturale che guardava in avanti. Lovati la racconta con queste parole: «Allora abbiamo agito nel percorso di separazione della proprietà dalla gestione dell’azienda. Abbiamo deciso che l’azienda familiare di amici rappresentava un limite allo sviluppo, ma anche un rischio alla sussistenza perché perdere certe persone avrebbe potuto significare anche la dispersione di quell’armonia all’interno dell’impresa che nei primi otto anni di vita avevamo costruito. Nel 1996 si completava quella riflessione operativa tutt’altro che semplice. Che ci portò a dire che per essere socio di Beta 80 bisogna lavorare in Beta 80 e dunque nessun socio esterno di capitale. È stata una decisione spartiacque che vale ancora oggi. Non è stato un passaggio facile. Quattro dei dieci soci che avevano costituito la società sono usciti; però in un processo interessante perché con loro noi che siamo rimasti manteniamo ottime relazioni. Certo quel che è avvenuto non è stato indolore, ma è indubbio che ci è servito ad aumentare la consapevolezza di quello che ciascuno di noi voleva fare. Per esempio il primo presidente, ora fa il professore universitario ed è vice rettore dell’Università di Milano Bicocca». Proprio quella fase storica fece emergere aspetti di grande provocazione. Lovati è andato dritto al punto: «In quei momenti di riflessione e di decisioni emergeva con chiarezza un fatto che riassumo così: non esistono uomini per tutte le stagioni. Vuol dire che una persona è più capace di fare un pezzo di un percorso aziendale, magari di start-up o magari di prima crescita dell’azienda e, invece, risulta meno adatta a gestire uno sviluppo. Un’azienda è sempre in movimento, cambia l’organizzazione, si modificano le dinamiche nei rapporti, nelle responsabilità e dunque non è detto che ciascuno di noi sia adatto a interpretare un ruolo consolidato, appunto valido e opportuno per tutte le stagioni. Averne preso consapevolezza tenendo prima di tutto viva la domanda davanti a un fatto che si presentava in embrione, ha favorito un processo di sviluppo decisivo, perché si sono liberate energie positive all’interno dell’azienda, persone hanno preso responsabilità, consapevolezza; si sono gestite le situazioni fino al punto di prendere atto che non tutti i soci avevano le caratteristiche per avere una posizione manageriale». 

Nel 1996, seppur contro la sua volontà, Lovati assumeva la carica di amministratore delegato. Lui si sentiva fragile, aveva scarsissime conoscenze in materia economico-finanziaria. Comprendeva che avrebbe dovuto mettersi a studiare e certo non poteva farlo nella normalità. «Lavoravo come un matto, l’operatività mi succhiava del tutto. Allora ho fatto un patto con la mia famiglia: per un anno e mezzo lavoro tutto il sabato e metà domenica. Non poteva che essere così se volevo studiare e mettere la testa su sviluppo e strategia dell’azienda. Questo ha voluto dire introdurre in Beta 80 un’altra questione fondamentale per la crescita di una realtà imprenditoriale: la pratica della delega per non essere totalmente occupato dall’operatività. Ma per andare in questa direzione occorre creare le condizioni per poter delegare. Il primo aspetto è chiarire cosa fai tu. Perché altrimenti è una delega finta, cioè c’è sempre un’invasione, nella migliore delle ipotesi reciproca, nella peggiore l’invasione è sempre la tua nei confronti dell’altro. E finché non affidi una responsabilità è molto difficile che la persona chiamata in causa se l’assuma di per sé. C’è poi un altro aspetto molto interessante che può emergere nella dinamica dello sviluppo, ovvero che la persona che avevi chiamato ad una responsabilità si sottrae, sembra rinunciare e quel fatto può rappresentare una sconfitta. Allora, per non disperdere quel processo fondamentale, agisci con l’altro non offrendoli soluzioni ma provi a suggerirgli criteri. Si lavora sui criteri. Una leva motivazionale dentro la relazione e la fiducia».


«Hai considerato questo aspetto?»

Davanti alle difficoltà, alle frenate dell’altro che lo porta a dire «io questa cosa non riesco a farla» sarebbe forse più scontato suggerirgli di operare in un certo modo, appunto fornendogli una soluzione. Più conveniente perché motivante è tenere alto il rapporto rilanciando con un’altra domanda: «Hai considerato questo aspetto?». Ed è probabile, ha chiarito Lovati, che la questione prenda la forma dell’incalzare di domande. E non è una perdita di tempo pur se la velocità di risposta è un tema dell’attività aziendale. «Una cosa è certa: dalla mia esperienza ho compreso che dare chance alle domande consente di mettere a fuoco il fenomeno che è oggetto del dialogo, del confronto responsabile. Del confronto dentro una logica di delega, dove tu e l’altro si è provocati dalla libertà». E le persone che hanno una visione strategica dimostrano di avere anche una tenuta, cioè non si ritraggono. «Sono quelle che sanno modulare un processo di decisione, di cambiamento in relazione alla complessità dei fattori in gioco». Certo la delega è un rischio. Ma ragionevole e ormai inevitabile specie se l’impresa intende svilupparsi, andare a sondare nuovi mercati. Ecco perché si arriva al punto in cui è decisivo investire sulle risorse umane. Sulla cultura della persona. E non solo sulla stretta competenza pur non secondaria. Il tema dei giovani, e Lovati lo ha già introdotto, è sempre stato centrale in Beta 80. Siccome molti tra loro la consideravano un’azienda di ridotte dimensioni e pertanto poco appetibile, ecco che Lovati racconta di aver preso la decisione di affidare a un giovane la responsabilità di una linea di business. Ovviamente non un salto nel buio, ma un rischio ragionevole. La questione di introdurre figure professionali di giovane età è divenuta vieppiù dirimente. Lovati si occupava dei colloqui a cui arrivava lavorando su un aspetto: cosa Beta 80 poteva offrire loro; come l’azienda poteva valorizzare i loro talenti. Si chiedeva: il nostro fattore distintivo è sufficientemente attrattivo? Misurandosi su questo l’azienda è riuscita a lavorare sui punti di criticità. È riuscita a trovare persone, manager che hanno preso a cuore quella sfida, che non avevano una visione speculativa dell’azienda. «Commettere errori nella scelta di introdurre nuovi manager è un rischio serio a maggior ragione per una realtà come la nostra che in quel periodo non aveva certo risorse da sprecare. Introdurre nuove professionalità sembrava un rischio ma è stata una condizione decisiva per lo sviluppo dell’azienda.». 


La cultura d’impresa

Per Lovati il manager deve rispondere a due requisiti fondamentali: come si rapporta alle persone e quale idea ha del futuro. Il processo di organizzazione che si è costruito negli anni – una governance presidiata da un unico board di manager che sovrintende tutte le business units in relazione con i soci tutti operativi e laddove solo alcuni soci sono manager e con funzioni apicale – ha tenuto in gran conto questi pensieri. La famosa armonia aziendale, pur dentro dinamiche che non escludono criticità, si è costruita secondo la traiettoria di uno sviluppo fortemente costruito sull’architrave della responsabilizzazione delle persone. E quindi sulla delega. Un processo decisivo per raggiungere nuovi obiettivi. Per diventare rilevanti. Ha detto Lovati: «Sul tema dell’Emergency siamo i leader assoluti in Italia assoluti e tra in primi cinque in Europa». Ma nell’IT la concorrenza è spietata. Ecco perché diventa un fattore decisivo potersi concentrare sullo sviluppo e la strategia. Per andare a vedere e a scoprire cosa c’è di interessante da sondare là fuori. Ma per fare questo in un’azienda servono anche persone che pensano.  Di cultura plurale. La contaminazione, secondo Lovati, è un valore che fa la differenza. E che non riguarda solo il vertice. Anzi. Il far calare dall’alto le decisioni è una pratica che ha il fiato corto. Una cattiva pratica. Infatti «così non cresce la cultura aziendale. Perché viene a mancare la condivisione del fare impresa che è propria della delega. Viene a mancare la visione, il senso di responsabilità che allarga il concetto di mansione, di competenza. Lo esprime al meglio. Uno non ne resta succube».  E ancora, per esplicitare con un esempio: «Io, adesso, ho la responsabilità dello sviluppo internazionale di Beta 80. Non mi occupo di alcun tipo di scelta organizzativa delle business units tutte delegate al direttore generale e ai business unit manager». Laddove, e questo vale ai più diversi livelli della delega, deve essere chiaro il nesso che intercorre tra quello che uno fa e le strategie dell’azienda.

Tre anni fa in azienda è arrivata una nuova direttrice marketing e comunicazione per lavorare in modo particolare su una nuova idea di sviluppo non più legata solo alla pura reputazione ma a come il brand penetra in ambiti del mercato dove normalmente ti è precluso accedervi. La collaborazione si è avviata con la formula della consulenza, poi le è stato proposto di coinvolgersi direttamente. Lei, dopo qualche comprensibile resistenza, ha accettato dopo un anno che aveva iniziato la collaborazione. «Un giorno ci ha detto: ‘Non sapete come sono contenta di lavorare qui perché in Beta 80 ho visto delle cose, dal punto di vista della vostra cultura – che non avevo visto da altre parti e io voglio lavorare su queste cose per poterle poi comunicare’. Io allora l'ho provocata e le ho detto ‘guarda che in certi casi per far vedere certe cose tutto è compreso e sviluppato in una frase ‘vieni e vedi’, l’ha detta un tale che ci sapeva davvero fare. Sempre a proposito di relazione, eh”. E sempre a proposito di cultura aziendale che contamina costruendo. E costruisce contaminando. 


 


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